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La notte di San Patrizio

Si è parlato molto di quella partita, e si sono dette un mucchio di sciocchezze. Per questo fareste bene ad ascoltare la storia che ho da raccontare. Perché io c’ero.
Tanto per cominciare, non è vero che si giocò la notte di San Patrizio, perché si cominciò a mezzanotte, il 18 marzo del 1935. Eravamo in quattro, “Rob Roy” Saracino, il sergente O’Brian, io. E lo straniero, quello che metteva i brividi e si faceva chiamare De Ville. Poi era presente l’Onesto Harry, a fare da garante.
C’era stata guerra di mafia, a Detroit, e la pace era stata faticosamente conquistata solo un anno prima. Il patto era chiaro: a est della Settima comandava Angelo Cascella, a ovest dell’Ottava Lucky Cirasuolo. Il Capo della Polizia, l’irlandese MacNamara, prendeva una percentuale da entrambi. Tutta la zona fra la Settima e l’Ottava era territorio neutrale, una terra di nessuno dove era proibito svolgere attività illegali. Poi un bel giorno arriva questo francese e apre, proprio lì, nella zona franca, una piccola attività da usuraio. Questo era un fatto grave.
MacNamara, che era corrotto ma non un cretino, capì subito che se fosse saltato l’equilibrio i morti si sarebbero contati a centinaia, e per chissà quanto tempo. Così corse ai ripari, e organizzò un incontro tra Angelo, Lucky ed il nuovo arrivato, che doveva avere alle spalle qualcuno davvero potente per sfidare così apertamente due famiglie tanto importanti.
Di questo incontro chiedete a chi c’era, io non so come andarono esattamente le cose, ma un fatto è certo: De Ville riuscì a convincere tutti quanti a sistemare la faccenda con una partita a poker. Il vincitore avrebbe ridisegnato l’assetto della malavita a Detroit.
E a questo punto entro in scena io. A quel tempo avevo vent’anni, e giocavo da … non lo so. Non ricordo un periodo della mia vita in cui non sapessi giocare a poker. Be’, un giorno Angelo mi fa chiamare, mi porta in giro nella sua macelleria e intanto mi fa un sacco di complimenti per la mia carriera di giocatore professionista. Mi ricorda con grande eleganza un paio di favori che gli devo, poi mi dice che c’è una certa partita da giocare la notte dopo San Patrizio, e a conclusione della gita turistica si ferma davanti ad un vitello squartato e mi dice queste testuali parole: “Kid, ho molta fiducia in te. Vinci per me questa partita e ti pago l’iscrizione al campionato del mondo di poker di Las Vegas. Se perdi, mi vedrò costretto ad appenderti a questo gancio per le palle. Buona fortuna. ”
Così mi ritrovai a giocarmi le palle in uno scantinato del Moulin Noir a Detroit. Dentro la stanza noi quattro giocatori e l’Onesto Harry, un tavolo verde, una lampada bassa, una cassa di scotch ed un mazzo di carte, fuori della porta gli scimmioni che mi avrebbero accompagnato alla macelleria di Angelo in caso di sconfitta. Ci credete? di quella sera ricordo ogni minimo particolare, ogni insignificante dettaglio.
Alla mia sinistra “Rob Roy”, una vecchia volpe del tavolo verde, ormai a fine carriera, ma pur sempre il migliore in circolazione a Detroit. Dopo quella partita, il secondo miglior giocatore di Detroit. Giocava per conto di Lucky Cirasuolo, erano amici da una vita, per quanto si può essere amici in certi ambienti. Dritto davanti a me, l’irlandese Seamus O’Brian, un sergente di polizia, un altro osso duro, se non altro per la totale inespressività del suo brutto muso pieno di lentiggini. Un ostacolo quando sei in società ma una risorsa preziosa quando giochi a poker. E poi alla mia destra, il francese, De Ville. Un tipo enigmatico. Né giovane né vecchio, con dei baffetti che davano sui nervi e un mezzo sorriso sempre a fior di labbra come se ti stesse prendendo in giro. Molto elegante nei gesti, da vero signore, tuttavia in qualche modo ripugnante. Non l’aspetto fisico, intendiamoci, quello era anzi gradevole, ma una sensazione di vago disagio, che diventava ancora più soffocante quando ti puntava gli occhi addosso, occhi glaciali e perspicaci, ma disumani, quasi di insetto. Noi al tavolo, ognuno davanti a sé mezzo milione di dollari. L’Onesto Harry era tra O’Brian e De Ville, e distribuiva le carte. Inizio a mezzanotte in punto, termine fissato per la scadenza le sei di mattina.
Ricordo ogni mano giocata quella sera, e non furono poche. I soldi cambiavano proprietario assecondando i capricci della sorte, ma si manteneva un certo equilibrio perché ognuno di noi sapeva il fatto suo. Anche Harry vigilava bene, come al suo solito, così si poteva dire che la partita fosse sostanzialmente corretta. Fino alle sei meno un quarto.
Rob Roy era in vantaggio, e io leggermente indietro, ma ancora tutto da giocare. Un paio di giri di parola avevano fatto crescere il piatto in maniera consistente, poi, quella mano.
Parla De Ville e apre, io mi guardo le carte, due assi una donna un 8 e un 3, e rilancio perché devo recuperare. Rob Roy rilancia ancora, O’Brian vede, De Ville raddoppia. Insomma, si annunciava una mano di quelle memorabili. Io do un’occhiata all’orologio e vedo, Rob Roy rilancia, O’Brian vede, De Ville raddoppia un’altra volta. Lo guardo: il solito mezzo sorriso indisponente. Vedo. Alla mia sinistra: vedo. O’Brian con il suo abituale cipiglio inespressivo, vedo.
Si cambiano le carte. De Ville 2, io 2, Rob Roy 1, O’Brian 1. Sei minuti alle sei: è chiaro per tutti che questa mano è decisiva. Apro le carte una a una: asso, asso, donna, asso, … , … , asso!
Solo in quel momento, quando ho visto far capolino l’asso di quadri, mi sono reso conto che era una trappola e che io ci ero caduto in pieno. Guardo gli avversari, e capisco anche chi è l’uccellatore. Il francese. E noi le sue prede.
Apre mettendo sul piatto metà dei soldi che gli restano. Trappola o non trappola, non ci sarà un’altra mano, devo assolutamente vincere questa. Per guadagnare tempo vedo. Rob Roy che pure è astuto non si è accorto di nulla: rilancia. O’Brian a volte è proprio ottuso quanto la sua espressione facciale lascierebbe supporre e rilancia ancora. Sul piatto c’è un milione e mezzo di dollari. A questo punto al francese resta solo da chiudere la morsa.
Sorride né più né meno del solito, mette tutti i suoi soldi sul piatto a coprire il rilancio dell’irlandese, e poi tra lo stupore generale aggiunge al piatto un bottone. Un bottone semplice, né grosso né piccolo, con i quattro buchi che vi aspettereste da un bottone. “Più un’anima”
Sono talmente sbalordito che per un momento mi dimentico perfino del fatto che le mie palle stanno pericolosamente imboccando la via della macelleria di Angelo. Un coro di proteste sommerge l’inaudito rilancio, per un caso che ha del miracoloso a nessuno capita di estrarre una Derringer nascosta chissà dove. Poi una voce impone il silenzio. È Harry, l’Onesto Harry.
Harry era un baro di prima scelta, ai suoi tempi, vale a dire molto tempo fa. Poi capitò qualcosa a Kansas City o nella Louisiana, circolano diverse versioni sull’argomento e lui non ne parla volentieri, in buona sostanza dopo una partita andò parecchio vicino ad essere linciato, aveva già la corda al collo e mancava solo un ramo cui appenderlo, quando gli salvò la vita l’intervento chi dice di un Ranger, chi di un Pistolero, chi di uno Sceriffo. Così Harry ebbe una crisi morale, e si convertì all’Onestà. Intendiamoci, niente a che vedere con la Legge, io parlo di Onestà. Mise fine alla sua vita vagabonda, tornò a Detroit dove era nato, e divenne l’Onesto.
Ora l’Onesto doveva arbitrare questa puntata senza precedenti. Eccolo che guarda per aria, si gratta il mento, si schiarisce la voce, e parla.
“La regola di questa partita è che non potete scommettere nulla che sia fuori di questa stanza. E l’altra regola è che tutti iniziano con la stessa quantità di soldi. E mi sembra che questa scommessa non violi nessuna delle due norme. Potete credere all’anima, o non crederci. Se non ci credete, allora vedere il suo rilancio non vi costa assolutamente niente. Se ci credete, allora ognuno di voi ne ha una e se l’è portata qui dentro, quindi il gioco è pari. Respingo i reclami. Signori, giocate. ”
Non si mette in dubbio il parere dell’Onesto Harry. De Ville mi fissa lo sguardo negli occhi, e allora capisco una cosa, e forse tutte. Si deve essere manipolato le carte nel momento di confusione che è seguito al suo rilancio. Ed ora sta lì, con una scala reale in mano, a sogghignare. Tempo.
Ecco, semplicemente non mi va di essere appeso per le palle ai ganci della macelleria di Angelo. Però io ho quattro assi, e lui una scala. Devo inventare qualcosa. Lui guarda fisso le carte che ho in mano. Tutti guardano fisso le carte che ho in mano. Le mie cinque carte inutili. Il mazzo è lontano, tra le mani dell’Onesto Harry. Posso scordarmelo. Di fronte a me le due carte che ho scartato, un 8 e un 3. Inutili. I ganci che mi entrano nelle palle. Le due carte che ha scartato il francese, lì davanti a lui. Sei un bastardo, De Ville. Al diavolo l’anima. Vedo.
Metto la somma che manca. Poi mi stacco un bottone dalla camicia e lo metto nel piatto. Ora tocca a Rob Roy, ma il francese continua a guardare me. Le mie carte. Sa che io so. Rob Roy sbuffa, impreca in siciliano, si guarda ancora le carte come se le vedesse per la prima volta, poi si strappa un bottone e vede. L’irlandese per la prima volta in vita sua manifesta un’emozione. È paura. Sapete come sono, questi irlandesi. Tutti superstiziosi e bigotti. Si segna, e passa.
De Ville sorride, e tira giù uno di fila all’altro 6 7 8 9 e 10 di picche. Allunga le mani sul piatto. “Un momento. Voglio vedere l’apertura. ”
Il francese alza le due carte coperte di fronte a lui, e sono un 8 di quadri e un 3 di cuori. Il mio 8 ed il mio 3. Ero riuscito a scambiare il mio scarto con il suo. Mi fulmina con lo sguardo, ma questa volta al posto della glaciale indifferenza c’è un pizzico di ammirazione in mezzo a molta rabbia. Rob Roy ha un poker di Re, O’Brian ha passato, io vinco. I Ganci della macelleria di Angelo diventano un ricordo di un’altra vita. Rastrello il piatto. Ci sono due milioni di dollari in contanti e tre bottoni.
“Ehi Rob Roy, ti propongo un affare: ti do indietro la tua anima se mi procuri due biglietti per la partita di baseball. ”
“Si può fare. ”
Poi, al francese che continua a guardarmi con sempre minore rabbia e maggiore ammirazione, chiedo
“E questa? Di chi è?”
“Scegli tu. Io ne ho molte. ”
“Allora diciamo Angelo Cascella. ”
“Buona come un’altra. ”

Il giorno dopo lo straniero partì e nessuno lo vide più a Detroit. Angelo fu di parola, mi finanziò il viaggio a Las Vegas e l’iscrizione, e grazie al suo aiuto vinsi il mio primo campionato mondiale di poker. Cominciai così la vita vagabonda del giocatore di professione, che è una storia interessante però è un’altra. Il bottone che avevo vinto a De Ville lo feci cucire sulla mia camicia portafortuna, che è questa, ma non cercatelo inutilmente. Nel Quaranta mi trovavo a Milwaukee, stavo sfogliando il giornale in un bar, quando mi cadde lo sguardo su un articolo in cronaca. Morto in carcere il boss mafioso Angelo Cascella. Sottotitolo: “Sei mesi fa aveva donato tutti i suoi averi ad un ospedale per poveri e si era costituito. ” E mi sono reso conto di avere perduto il bottone.

Alessandro Mossa