Le cronache del Ballo del Giglio
Erano un numero dispari imprecisato tra 1 e 83. Erano vestite da hippy, ma dentro si sentivano anche un po’ pirate e ninja (anche se una di loro aveva le idee poco chiare su cosa fosse un ninja). Forse la bicicletta era vestita da ninja. Si addentrarono nell’Isola che non c’è e all’inizio osservarono da lontano il ristorante dominicano, il chiringuito finto-hawaiano e la taverna dei pirati. Avevano delle copertine, e si accamparono su un prato all’inglese. Parlarono delle loro vite, delle loro strategie di accoppiamento (grandi rivelazioni ebbero luogo) e di quanto scolpisse i fianchi la lap dance professionale. Parlarono anche dei loro progetti teatrali e circensi per il futuro, sotto un cielo stellato, impavide, mentre l’orchestra sfornava un liscio dopo l’altro. Dopo un po’si accorsero dei cavalli che costeggiavano di continuo i loro plaid e che le osservavano con sufficienza, lievemente indispettiti. In effetti, erano circondate da cavalli che giravano in tondo intorno a loro, come gli squali nei cartoni, e realizzarono di essere in mezzo ad una pista. Allora si spostarono alla taverna dei pirati, tra barili impolverati, avventori loschi che ballavano “Siamo i Watussi” e un forziere di monete esposto pubblicamente. Valutarono se fare una foto di gruppo davanti alla gigantografia di pvc de “I pirati dei Caraibi”. Poi decisero di mantenere segrete le loro identità. E liscio fu.